Pedalate eroiche
Ogni tanto guardarsi indietro fa bene, ma bisogna stare attenti al torcicollo. Bisogna farlo con moderazione e mai di scatto. Per poi tornare a guardare avanti con rinnovata ispirazione. Fra le cose dell'Alto Mondo che ci consegna la storia e che più stupiscono, ci sono certamente le scalate ottocentesche di alpinisti che salirono per primi le vette inviolate delle nostre alpi con attrezzature pesanti e poco funzionali, alpenstock e ramponi a sei punte, maglioni di lana grossa e scarponi in pelle. Ma anche le pedalate di certi primi pionieri che osarono affrontare viaggi di migliaia di chilometri su "puledri d'acciaio", detti anche velocipedi (gli antenati della nostra bicicletta moderna), superando passi alpini di duemila metri senza strade carrabili, su mezzi a due ruote tutt'altro che leggeri, privi di cambio e di sistemi frenanti efficienti. Fra le storie più emozionanti c'è quella di Luigi Masetti che, nel 1893, partì da Milano e raggiunse Chicago passando da Londra e dall'Inghilterra, dove si imbarcò.
La storia di questo biker giramondo con gli occhialini da intellettuale, vero e proprio pioniere delle due ruote, è fantastica, eppure vera. Avventura allo stato puro con quella che, ai tempi, era tecnologia all’avanguardia. In Calabria e Basilicata il “bicicletto”, come inizialmente veniva chiamato, fu persino scambiato, dai locali non proprio aggiornati sulle vicende del mondo, per la ferrovia! Pioniere dei viaggi avventurosi dunque, e protagonista di grandi imprese, nel 1893 Masetti compie il viaggissimo Milano-Londra-Chicago-Londra-Milano in bicicletta. Il resoconto del viaggio viene pubblicato a puntate sulle pagine del Corriere della Sera. In quegli articoli si trova anche l’avventurosa cronaca del valico del Sempione, un paio di giorni dopo la partenza da Milano. Proviamo soltanto a immaginare come doveva essere il percorso. Il "bicicletto" (chissà perché ai tempi era maschile), ribattezzato affettuosamente "Eolo" dal nostro, invece, non abbiamo bisogno di immaginarlo, grazie alla preziosissima foto rimasta che lo ritrae cavalcata dal suo pilota e che qui pubblichiamo, insieme a quel memorabile racconto:
"A Ornavasso, rimasi solo. Il cuore mi batteva più forte, LEGGI TUTTO
mentre il pensiero tentava indarno d’internarsi nell’ignota meta del mio viaggio. Su una dolce discesa abbassai il capo e corsi fortemente per un paio di chilometri: poi mi rialzai confortato e continuai di buon passo, contento d’esser solo. In certi momenti, mi piace tanto pensare e correre, che mi annoierebbe anche l’interruzione di qualsiasi voce amica. Alle 10 ero a Domodossola, che attraversai a piedi in mezzo a molta gente. Un crocchio di signorine era raccolto presso l’uscita della città, e il delicato suono delle loro vocine mi giunse all’orecchio: 'Milano! Buon viaggio!'. Subito dopo Domodossola, la valle si fa più stretta, la strada sempre più bella, ma s’incomincia ad incontrare delle salite da fare a piedi. A mezzogiorno ero ad Isella.
Al confine svizzero, depositai L. 38 (2 p. Kg.) per entrare col mio Eolo. E su, e su, mentre il vento si andava facendo più gagliardo e acuto. Attraversato il villaggio Sempione, circondato da cime nevose, la valle s’allarga. A poco a poco cessa il fragore dell’acqua precipitante, finché subentra il silenzio, interrotto solo dal sussurro di qualche gruppo di pini. Alle 8 giunsi finalmente al provvido e sospirato Ospizio del Sempione, posto al colmo della lunga salita, alto 2040 m. sul livello del mare, la cui temperatura, questa sera, è di 7 gradi sopra zero. Un buon frate, il padre Carron, m’accolse, ritirò il mio Eolo e, fattomi salire una scala, mi assegnò la mia stanza. Dopo pochi minuti mi chiamò nella sala da pranzo. Girò egli stesso una ruota incassata nel muro e fece salire dalla cucina un’abbondante minestra di tagliatelle. Ripeté il giuoco e mi presentò una buona porzione di manzo lesso e pane e patate; poi arrosto di vitello, una mezza bottiglia di vino eccellente, insomma una cena ottima. Mentre io mangiavo, il buon frate stette lì a farmi compagnia fino alle 9 e mezzo, quando andai a coricarmi con le gambe un po’ indolenzite dalla lunga camminata. [...] La mattina 16 luglio splendeva sul Sempione un fulgido sole; ed io, fatta un’eccellente colazione insieme con un alpinista e il buon padre Le Prieur, alle 11 presi congedo dal benefico Ospizio. Montato in sella mi trovo una discesa piuttosto ripida, poi ripidissima; stento a tenere il freno, essendo questo un po’ duro; e finalmente posso fermarmi ad una curva da dove, riposati i polsi, continuai a piedi. Dopo un bel tratto di discesa, vedendo che questa facevasi meno ripida, rimonto in sella. Ma eccomi di nuovo lanciato a corsa precipitosa. (Sulle Alpi occorrono due freni per potersi fermare in qualunque punto). Io, nel far posto a un inglese con la sua signora e una bambina, che guardando in giro per la magnifica valle, occupavano tutta la strada, “non caddi no, precipitai di sella”. Il primo pensiero fu al mio Eolo. Lo rialzai: aveva storto un pedale, storta la ruota davanti, discentrato il manubrio, però nessuna rottura grave nonostante il terribile colpo ricevuto. Poi cominciai a ispezionarmi, e m’accorsi d’aver rotta un pochino la pelle sulle ginocchia e alle mani; il dito medio della sinistra slogato... e nient’altro. Proseguii a piedi fino a Brig. Là, essendo festa, nessun fabbro avrebbe posto mano al mio bicicletto per ripararlo. Così, bevuto un bicchiere di birra, continuai a piedi col mio cavallino a mano fino a Münster, dove pernottai"
La storia, raccontata meglio e per esteso, è raccolta nel bel libro di Luigi Rossi "L'anarchico delle due ruote" (Ediciclo Editore).
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Flessioni e riflessioni
Reinhold Messner ripete spesso che l’alpinismo ha a che fare con l’arte e non c’entra nulla con lo sport e che chi pratica sport nelle terre alte non comprende il cuore della montagna. Come la mettiamo allora col recente boom dello skyrunning e delle competizioni di ski alp, con l’imminente trentennale delle gare di arrampicata che, in Italia, nacquero nel 1985? Sono termometri di cosa? Di una montagna vissuta come non-luogo dove l’atleta-alpinista percorre a testa bassa il suo chilometro verticale indifferente alla vetta che sta raggiungendo, alla sua storia, alla gente che popola i suoi fondovalle? Ammetto di aver imparato molto più della montagna in alcune salite alpinistiche da interpretare o quella volta sul pianoro di Forculti, in Val Formazza, dove la nebbia fitta mi fece perdere persino una traccia facile che in anni di gare di ski alp o di moulinette sulla stessa via di arrampicata per migliorare il grado. Senza bisogno di ripetere le avventure di Ernst Henry Shackleton che rischiò di restare intrappolato fra i ghiacci del Polo Sud, quel po’ di avventura e di ricerca mi hanno insegnato molto delle terre alte. Insomma, sport e alpinismo c’entrano poco come la ruota del criceto in gabbia con la libertà, come la piscina con il mare o il porno con l’amore. Di qua la ripetizione meccanica di un gesto, la routine, la testardaggine; di là la creatività, gli imprevisti continui, lo smarrimento incombente, l’ingegno e la testa. C’è una differenza sottile e abissale fra quelle che in montagna si definiscono “testa” e “testardaggine”: che entrambe si accompagnano alla forza d’animo, ma la prima deve ragionare, interpretare, confrontare, collegare luoghi, ricordi, informazioni; la seconda, la testardaggine, difficile anch’essa da possedere, si fonda sulla costanza, è cocciuta, segue imperterrita una traccia, sa ripetere cento volte una vasca dentro una corsia. Osservati esteriormente l’atleta–alpinista e l’artista-alpinista sembrano fare la stessa cosa: salgono montagne. Scavando più a fondo ci si accorge invece che ci sono differenze di metodo e di motivazione. Come sempre però il mondo non è diviso in modo manicheo. Molti artisti si “allenano” provando e riprovando mille volte a disegnare il cerchio perfetto, a suonare meccanicamente lo stesso pezzo, a forzare la scrittura nella forma perfetta dell’endecasillabo dantesco, per poi mettere quella tecnica a disposizione di un sogno e dar luogo all’opera d’arte, alla grande via. È manicheo chi attribuisce all’alpinismo e all’arte un posto nel Pantheon e guarda con snobismo schifato al sudore dello sportivo in tutina. Ed è prigioniero di un limite chi confonde il record di salita alla tal montagna con un’opera d’arte o con una laurea in alpinismo. (LEGGI TUTTO)
Forse è vero che il boom degli sport verticali ha a che fare con la crisi della creatività. Ma all’artista imbolsito un po’ di sport potrebbe non guastare: l’energia accende sempre una lampadina.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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pALP fiction
“La terra vista dallo spazio è una palla/ azzurra e silenziosa/ ma se ci vivi ti rendi conto/ che è tutta un'altra cosa.”
(Lorenzo Jovanotti)
Questa storia ricorda i film western degli anni ’60 e ’70, con tanto di pistolettate e risse da saloon, non fosse che è accaduta a 8000 metri. Al posto delle pallottole ci sono le piccozze ma in ogni caso si menano le mani. Il genere è il pALP, che nella mia personalissima tassonomia si colloca tra una pratica sportiva, l’alpinismo, e il pulp, nato con il film Pulp fiction. Pensando a molti titoli di giornali e telegiornali che, in occasione di certe tragedie alpinistiche, da oltre un secolo parlano di “montagna assassina”, verrebbe da dire che si tratta di roba vecchia. Sulla Karakorum highway, in Pakistan, un cartello nei pressi della deviazione per il Nanga Parbat (il nono ottomila della terra) recita: “Alla vostra sinistra la montagna assassina”. La montagna viene considerata un essere dotato di intenzione e, pertanto, le si attribuisce, con somma ingiustizia, la colpa di certi “ammazzamenti” provocati da valanghe, da cadute di sassi e frane, da smottamenti, da crepacci glaciali ingordi o da interminabili tempeste di neve.
La vicenda in questione segna però un salto di qualità e, dunque, la nascita di un nuovo genere, appunto, i cui protagonisti sono solo gli uomini, vittime e carnefici. Capitava un tempo che si parlasse di alpinismo per raccontare della prima salita di una montagna, del cimento solitario di un Bonatti sulla Nord del Cervino o dei tentativi, fino ad oggi vani, di scalare il K2 in inverno. La cronaca alpinistica himalayana della primavera 2013 racconta invece di una rissa avvenuta sull’Everest. Si sa che già altre volte in passato qualche scintilla ha sfavillato nei bivacchi degli alpinisti, vuoi per divergenze di opinione sulla strategia di salita, vuoi per decidere il da farsi in situazioni critiche, ma l’episodio recente supera tutti i precedenti per quota, intensità e numero dei contendenti.
Il 27 aprile, nei pressi del campo 3, sopra i 7000 metri, un gruppo di sherpa nepalesi stava attrezzando con delle corde fisse la via normale della montagna più alta del globo per consentire ai clienti (occidentali) di guadagnarsi l’ambìta meta nel 60° della prima salita. In quel mentre, l’alpinista italiano Simone Moro, lo svizzero Ueli Steck e il britannico Jonathan Griffith hanno attraversato la linea delle fisse per raggiungere la loro tenda. Gli sherpa d’alta quota erano lì al lavoro e, in quel momento delicato, ne è nato un alterco. I tre alpinisti sono stati accusati di aver toccato le corde e di aver causato cadute di ghiaccio sugli uomini al lavoro. LEGGI TUTTO
“Vi aspettiamo al campo 2”, si sono sentiti dire dagli sherpa minacciosi. E così è stato. I tre malcapitati sono stati accolti al campo inferiore da un centinaio di sherpa inferociti che hanno cominciato a tirar sassi e a brandire coltelli. C’è mancato poco che scappasse il morto. Nottetempo i tre se la sono data a gambe scendendo al campo base fuori traccia per non dare nell’occhio e non essere intercettati da altri nepalesi arrabbiati. Simone Moro ha commentato: “Cose dell’altro mondo”. No - ci permettiamo di dissentire - dell’alto mondo, ma di questo.
Anche le statuette del Buddha tremano per lo sconcerto. Le cose cambiano alla velocità della luce e la realtà supera la finzione. O meglio, la fiction.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Don Rai e il rifugio Miryam
Questa storia dell’alto mondo è anche un po’ dell’altro mondo. Si deve sapere innanzitutto che chi scrive gestisce un rifugio alpino, il Miryam, di proprietà delle Acli, in alta Val Formazza. Al rifugio spalo neve, taglio legna, faccio lavori di idraulica, servo polente e, nelle lunghe notti d’inverno quando non passano clienti, scrivo. Per i miei amici scrivere è solo una scusa per chiamare con un altro nome l’ozio, il dolce far niente.
Un giorno dell’estate 2011 capita al rifugio un signore sulla settantina, alla mano e con la faccia simpatica: a un certo punto si sofferma su una foto in bianco e nero appesa in sala raffigurante un gruppo di alpinisti in cima all’Arbola nel 1949. “Tel lì il Don Rai”, commenta in milanese. Sulla foto c’è una piccola freccia fatta a penna che indica, in mezzo ad altri, il volto di un uomo col collarino bianco tipico dei preti, la piccozza in mano. “È Don Raimondo – confermo io avvicinandomi - a cui era stato donato l’edificio dall’Edison, poi divenuta Enel, per farne un rifugio, dopo che lui prima della Liberazione aveva convinto i nazifascisti a non far saltare le dighe della valle. Nel ’49 aveva già fatto base qui per scalare l’Arbola con 7 cordate delle Acli”. “Eh già, so, so… il Don Rai… Che personaggio! Non era un tipo da prete: gli piaceva l’alpinismo, la montagna, il vino e non solo, eh eh… Ma poi in guerra se l’era cavata per miracolo e lì dev’essere scattato qualcosa. Non aveva del prete ma aiutava i poveri cristi, girava per i quartieri bombardati di Milano col carretto per dar da mangiare agli sfollati, e poi si era preso a cuore gli orfanelli come me”, conclude il cliente sorridendo.
Non pensai più per quasi due anni a Don Raimondo fino al marzo di quest’anno. L’inverno aveva portato il gelo, un po’ di neve e in quei giorni tante nuvole. E il chiodo fisso del Don Rai. Volevo metterla giù per iscritto questa sua storia che incrociava la grande Storia. Avrei voluto incontrarlo, fargli domande su quegli anni di fine guerra, sulla scalata all’Arbola, su com’era la Formazza di metà Novecento, sul perché di questo nome “Miryam” al rifugio, che in ebraico significa “Maria”. A dire il vero a chi chiede del nome – c’è sempre qualche curioso – rispondo sbrigativamente, senza usare aggettivi, che il Miryam si chiama così semplicemente perché è “un rifugio della Madonna”...
Torniamo al chiodo fisso: a fine marzo tento un’indagine da dilettante e telefono a un amico: “Sai come faceva di cognome il Don Raimondo?”. Negativo. Intanto viene aprile. Passano alcune settimane. Chiamo altri amici del rifugio, Gerardo e Daniele. “Sì sì, qui tutto bene. Ma voi sapete per caso se il Don Rai è ancora vivo?”. “Eh mi sa che è morto già da un po’ - dice Daniele – però so che di cognome faceva Bertoletti, parroco a Sesto Calende. Una decina d’anni fa l’abbiamo incontrato in casa di riposo a Milano, alla Don Gnocchi”. Attacco il telefono e apro il motore di ricerca di Google, è il 25 aprile 2013, giorno della Liberazione. Digito “Don Raimondo Bertoletti”. Fra i primi risultati leggo sul giornaledeilavoratori.it che “È venuto a mancare in questi giorni Fratel Raimondo Bertoletti, tra i protagonisti degli anni eroici della nascita delle Acli”. Scopro così che l’ho mancato per un soffio.
Ma scopro anche che partecipò al movimento resistente delle “aquile randagie”, gli scout cattolici clandestini che lo chiamavano “Castoro” e che furono messi fuori legge dal fascismo. Scopro da una foto che arrampicava su roccia, che andò in guerra in Grecia, nel V Alpini, Battaglione Morbegno, e fu ferito. Che un commilitone morì fra le sue braccia e lui decise di farsi prete e lasciare la fidanzata (“Ritieniti libero nella tua scelta” gli disse lei). «Volevo cercare l’“Uno” – scrisse - che era al di fuori delle fluttuazioni della storia e dei sensi del mondo». Scopro che fu ordinato nel 1945 dal Cardinale Schuster in Duomo e che poi fece il camionista e lo scaricatore di porto a Marsiglia. Lo chiamavano anche “Tulin de l’oli” per via della statura, questo prete operaio e alpinista. È campato ben 96 anni (a riprova che la passione per la montagna fa bene), e di tutti i giorni, le settimane, i mesi in cui avrei potuto pensare a lui mi è venuto in mente proprio qualche giorno prima che se ne andasse, lunedì dell’Angelo 2013, fra Pasqua e la Liberazione. Chissà cosa voleva intrufolandosi nei miei pensieri. Forse voleva solo favorire l’ozio da cui è nato questo scritto e sottrarmi alle polente…
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Fiction K2, una montagna di banalità
Il “K2” è stato per molti anni il bar delle sigarette di mio padre e del cappuccino di mia madre. Fino al 2004 per me K2 significava solo quello, una montagna di sigarette impilate dietro al bancone, caffé e flipper. Poi, nei primi mesi del 2004, il tam tam mediatico cominciò a battere sul tamburo del 50° della scalata italiana, avvenuta nel 1954, della seconda montagna della terra. Da quel momento in poi a quel nome cominciai ad associare non più il bar con il rondò e il supermercato GS accanto, ma una cima rocciosa impastata di neve e ghiaccio. Seppi così che quel bar era nato negli anni ’50, dopo la grande salita, primo moto d’orgoglio nazionale dalle batoste della seconda guerra mondiale. In quel periodo i cinegiornali parlarono molto della grande impresa di Lacedelli, Compagnoni, Bonatti & co. su quella vetta che nessun piede aveva mai calcato e in Italia cominciarono a spuntare tanti “K2” sulle insegne di bar, ristoranti, sale cinematografiche.
Se gli italiani degli anni ’50 si fossero seduti davanti alla TV lunedì e martedì sera (18 e 19 marzo 2013), probabilmente avrebbero scelto nomi diversi anche per il proprio cagnolino. In questi giorni infatti la Rai ha mandato in onda, sul canale ammiraglio della triplice, la propria fiction dedicata all’impresa dal titolo K2 – La montagna degli italiani. Peccato che il film appaia più come una montagna di banalità che come la narrazione di una salita epica. Le alture sopra Innsbruck fra foreste e masi che campeggiano bene in vista nella fiction stridono rispetto all’ambiente in cui si trova il vero K2, a centinaia di chilometri dai primi abitati, immerso fra ghiacciai, morene glaciali e vette a perdita d’occhio. La cima del film sembra una montagnetta dal clima docile, di contro a quella vera con temperature da freezer e venti che urlano.
I movimenti, i passi e le cadute sono palesemente irrealistici. Inoltre, parola di Reinhold Messner, “gli attori quando cadono sembrano degli ubriachi” che si appoggiano alla piccozza come un anziano potrebbe reggersi a un bastone. Il “belloccio” Bonatti della fiction sembra un monello egocentrico mentre, nella verità dei fatti, fu un gregario nei ranghi, ligio agli ordini dell’alpinista geologo capo spedizione Ardito Desio (unica figura ben interpretata da Giuseppe Cederna).
Se pensiamo a film recenti di alpinismo usciti in questi anni è evidente che La morte sospesa (Touching the void) di un regista doc come Kevin Mc Donald basati sull'omonimo libro dell'inglese Joe Simpson e North Face - Una storia vera (Nordwand) di Philipp Stölzl sono una spanna sopra, anzi, 8611 metri, quanto l'altezza del K2. Sarebbe interessante mettere a confronto i budget per capire se, oltre ad essere migliori, quelle pellicole sono anche costate meno. Certamente il contributo pubblico della "nostra" fiction è stato il più cospicuo, e di questo non c'è molto da rallegrarsi.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Sci Muniti
In molte località di montagna esistono dei cimiteri degli elefanti a cielo aperto che fanno paura. Verrebbe da pensare alle bestie spossate durante la traversata delle Alpi effettuata da Annibale, ma dopo qualche sopralluogo e un’analisi paleontologica ci si rende conto che si tratta di esemplari diversi dagli elefanti africani.
Gli scheletri che abbiamo trovato in perfetto stato di conservazione hanno zanne di ferro arrugginito, cavi-proboscidi composti da fili intrecciati d’acciaio, costati cabinati con residui di vetri rotti, zampe cingolate, orbite oculari a piattello in plastica, zampe-piloni di cemento armato rivolte verso il cielo a ricordare vagamente dei menhir. I siti archeologici nei quali abbiamo effettuato le nostre ricognizioni sono stati l’Aquila di Giaveno, in Provincia di Torino, il vallone che conduce a Punta Indren sul Monte Rosa (ed è il caso della foto che vedete), la zona del Monte Mucrone sopra Biella ma già nei primi anni del terzo millennio Mountain Wilderness (un’associazione sensibile alle tematiche ambientali) ne aveva censiti ben 20 soltanto in Lombardia e una decina in Piemonte. Altri si trovano sugli Appennini.
Sembra che queste specie di elefanti si siano estinte tra il XX e il XXI secolo quando ancora anche in Europa, nel periodo invernale, cadeva la neve che oggi (noi scriviamo dall’anno 3000) sappiamo confinata alle più alte vette dell’Himalaya. Gli uomini del tempo, per diletto, scivolavano sulla neve con degli attrezzi chiamati “sci” sulle piste di questi comprensori-elefanti.
Quel che più stupisce è che, nonostante gli scienziati di allora avessero segnalato a più riprese che le temperature e la quota media delle precipitazioni nevose fossero in drastico rialzo, le classi dirigenti continuarono a foraggiare con cospicui investimenti di denaro pubblico quei grandi famelici elefanti i quali, si sa, come i mammut della preistoria, avevano bisogno di climi rigidi per sopravvivere. Passi per quelli che si trovavano a quote elevate, ma per gli altri, il motivo di tali investimenti protratti sfugge al buon senso. Infatti quei comprensori non la scamparono e, anno dopo anno, furono sopraffatti da climi sempre più miti sicché la pioggia di denaro non fece ombrello alle frequenti piogge d’acqua. Si aggiunga il fatto che, nei contratti di concessione per l’uso del demanio, non fu mai contemplata la necessità di smaltire gli scheletri abbandonati una volta che fossero stati chiusi gli impianti. Che dire di tanta miopia? Come definire coloro che presero quelle decisioni?
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Albero pioniere
Mi è capitato spesso di leggere di persone che parlano alle piante. A dire il vero, fin da bambino, accadeva che trovassi mia madre mentre confabulava cose indecifrabili davanti a dei vasi di basilico o di salvia. Le chiedevo se stesse dicendomi qualcosa ma rispondeva che no, stava parlando tra sé ad alta voce. Io personalmente non ho mai parlato alle piante ma le ho abbracciate. Abbraccio spesso degli alberi, più sono grandi più li abbraccio. Certi alberi hanno cortecce dure, ruvide e asciutte, altri umide, verdi e muschiose. Alcune appartengono ad alberi secolari. Tutte trasmettono una bella sensazione che non so spiegare. Lì dentro ci sono centinaia di anni e di stagioni. Forse altre mani si sono posate su queste cortecce e la storia degli uomini è passata al loro fianco, nella reciproca indifferenza.
Quest’anno, dopo la metà di ottobre, ha fatto caldo e sono tornato in alto, al Passo del Sempione. Sono salito fino alla prima neve. Poi, scendendo, mi sono fermato a dormire al sole sotto un larice. Se ne stava lì solo soletto, con il suo letto di aghi dorati ai piedi. Possono campare fino a 500 – 600 anni questi pionieri, e lui ne avrà avuti almeno la metà. "Pionieri" sono quegli alberi che per primi si sviluppano su terreni spogli in montagna. Alcuni di questi terreni restano spogli semplicemente perché sono ostili, al limite della sopravvivenza per molte forme di vita. E questo era un pioniere da 2200 metri, proprio dove corre il limite della vita per gli alberi alpini. Mentre dormivo ho sognato operai montanari d’antan alle prese con la costruzione della strada napoleonica fra quelle montagne, truppe a cavallo che passavano e parlavano francese. Parlavano di guerra e del nuovo ospizio da costruire, della decisione di Napoleone di non transitare dal Sempione perché Giuseppina temeva i precipizi, di lunghi viali alberati da piantare. “Questa storia dei viali alberati – diceva un soldato – ovunque viali, chilometri e chilometri di alberi, di tigli, di platani in Francia e in Italia…”. Poi, mentre mi svegliavo ed ero sicuro di non sognare più, sentii dire queste parole: “rivoluzionario o conservatore, quel Napoleone aveva fatto la storia, e lui l’ha fatta anche con gli alberi. Ma ci sono ancora quei viali nelle pianure? Tu me lo sai dire?”. Guardai in giro per capire chi avesse parlato, ma non c’era nessuno. A parte quel larice pioniere.
(L'immagine che illustra l'articolo è tratta dal libro di Emilie Vast Storia di un albero)
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Gelate nella Valle del buon senso
Fra le cose che in questi ultimi anni condizionano le attività all’aria aperta, compreso l’escursionismo montano, ci sono le previsioni del tempo, o meglio, la loro banalizzazione mediatica. Il fenomeno si manifesta con un tripudio televisivo di personaggi graduati in uniforme, la proliferazione di siti web che mescolano le depressioni sul golfo di Biscaglia con inserzioni pubblicitarie di vasodilatatori, la notorietà popolare dei migliori metereologi che hanno raccolto l’eredità di Bernacca. Senza dubbio la materia può essere affrontata con rigore scientifico, ma anche questo ambito non è al riparo dalla cultura sgargiante del sensazionalismo. Accade così che se un servizio meteorologico annuncia grandi nevicate, nubifragi devastanti o l’arrivo di depressioni dai nomi apocalittici (nuova moda ereditata dagli USA), godrà di un ottimo share. Se invece i toni sono sobri e la previsione attendibile, minore sarà il gradimento.
Le previsioni, rispetto a quando si sperava nel tempo buono per una scalata alpinistica, per una vacanza felice o per andare a fare fieno, hanno certamente contribuito, specie nel primo caso, persino a risparmiare delle vite. Contemporaneamente però la loro mediatizzazione ha anestetizzato la capacità di osservazione della realtà. Una volta si chiedeva: “Com’è la meteo domani?”. E fin qui passi. La previsione del futuro, che si avvalesse di strumenti confinanti con la magia o di strumenti scientifici, è vecchia come il mondo e, fondamentalmente, appartiene al tentativo umano di esorcizzare la morte, cioè di incasellare l’imprevedibile e domare l’incontrollabile. Lasciamo perdere le conseguenze economicamente nefaste sul turismo di mari e monti di una previsione sbagliata, considerata l’audience, appunto.
Quel che è peggio è che sempre più spesso ci capita di incontrare gente, anche al rifugio di montagna, che si alza al mattino chiedendo: “Com’è la meteo oggi?”, intendendo non solo l’evoluzione delle ore successive, ma addirittura cosa si prevede per il momento presente. La cosa ha cominciato a preoccuparci, a darci motivo per considerazioni più grandi, banali e profondissime: “Ma come? – ci è capitato più volte di rispondere – se preferisce le accendo la televisione, altrimenti le apro le persiane…”. Chissà… forse il trionfo mediatico della meteorologia annuncia nebbia fitta e gelate estese nella “Valle del buon senso”.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Stalle cadenti
Con la bella stagione si comincia a girar per alture, per boschi e alpeggi. Girando si contempla e si riflette, confermando la massima secondo cui “il cammino è cultura”. A tratti, fra una svolta di sentiero e l’altra, esclamiamo: “va che bella questa baita!”. Oppure: “Che panorama meraviglioso da qui! Ci verrei a vivere su questo prato coi ciliegi e le vette imbiancate all’orizzonte”. Poi però, come è successo a me di recente vagando fra gli alpeggi, capita anche di vedere delle stalle cadenti.
Le stalle cadenti non si vedono solo a San Lorenzo, ma tutto l’anno. Quando vediamo le stalle cadenti non esprimiamo il desiderio che una buona manna porti prosperità in casa. Tutt’al più esprimiamo il desiderio che la storia cambi rotta, facendo tornare qualche bestia nelle stalle e qualche buonanima negli alpeggi. Se durante la caduta (della stalla) le mucche non sono morte tutte, si potrebbe addirittura pensare di dare loro nuova dimora. Certo, ci sono ancora delle stalle in buono stato che brillano nel firmamento delle regioni a statuto speciale o di qualche enclave fortunata, ma la maggior parte sfrigola luminosa con un ultimo colpo di trave per svanire nella notte dei tempi.
Tutto questo non dipende solo dal fato ma anche dalle scelte delle classi dirigenti che, dal secondo dopoguerra in poi, hanno abiurato alla civiltà rurale per abbracciare la società dei consumi che era incompatibile con i tempi lunghi delle transumanze, delle fienagioni e dei raccolti, cioè delle stagioni, le quali per mettere sul mercato un prodotto nuovo devono attendere la primavera. Hanno deciso che era meglio puntare tutto su cemento e finanza. Che il debito si poteva pagare con le rate, non con il denaro o con il grano. Hanno deciso che si potevano fare infiniti debiti lasciando le rate in eredità ai figli o alle assicurazioni. Quando penso a tutto questo e guardo in cielo – non lo nego – esprimo il desiderio che, ogni tanto, qualche stalla cadente finisca fuori rotta, e vada a scaraventarsi dritta dritta su Wall Street (da cui il nuovo Wall Street Crash del terzo millennio). Sogno di sentire il crash della stalla che, con tutto il suo peso di travi, di mucche, di mangiatoie e di letame, collassa sui monitor della borsa, in testa ai broker e sul NASDAQ (anche se non ho mai capito bene cosa sia).
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Gli indiani di Codelago e l'elogio della noia
Qualche anno fa scendendo dalla Bocchetta d’Arbola (2409 m) che collega la valle Svizzera di Binn a Pianboglio e Codelago, sopra l’Alpe Devero, nell’alto Piemonte, vidi da lontano e controluce (era l’alba) una donna camminare e sparire fuori traccia. Aveva i capelli mossi, passo spedito e niente zaino. Era estate. Andavo verso il Rio d’Arbola e fui certo si trattasse di una persona che lavorava all’Alpe Forno: “una Matli”, pensai (allevatori e casari di Premia che gestiscono da anni l’alpe, n.d.r.). Negli anni a venire, tra giugno e ottobre, mi è capitato sovente di vedere una canoa tagliare le acque di Codelago nel silenzio. Quella canoa tornerà questo mese di giugno, come certi uccelli migratori che non mancano mai l’appuntamento. Può essere l’amico Paolo, guida alpina e guardiano della diga, ma spesso si tratta del Carlo e della Rosi. A volte di uno solo dei due.
Li si vede remare con gesto regolare e armonioso, lasciando nell’acqua una flebile scia che subito sparisce. Lei ha gli stessi capelli mossi della persona che vidi quel giorno d’estate.
Il Carlo e la Rosi per me sono gli “indiani di Codelago”. Non so da dove vengano, forse da Trento, forse dalla Val Camonica, ma non sono così sicuro che sia importante saperlo. Tempo fa hanno ristrutturato una baita di proprietà del demanio, sulle sponde del Lago di Devero. D’inverno, per lavoro, fanno i maestri di sci a Madonna di Campiglio. D’estate si dedicano a se stessi e diventano gli indiani del Devero, di Codelago per la precisione. La baita l’hanno rimessa a posto utilizzando le pietre che ci sono lì attorno, portando a spalla qualche sacco di cemento. Per la corrente elettrica, giusto per la luce, hanno un pannello solare. Il fuoco nel camino per le giornate più fredde e umide.
Fuori, parcheggiata sulla riva, la canoa “utilitaria”. Su quella povera (ricchissima) spiaggia erbosa alcuni fili per la biancheria, un totem, qualche stoviglia. Un paio d’anni fa il Carlo ha provato a farsi la birra, scambiando le ricette con il “vicino di casa” Paolo, il guardiano. "A bere l’acqua pura della fonte si va continuamente in bagno: se non altro con la birra ti resta qualche sale minerale" - mi diceva mentre brindavamo con la sua doppio malto e mi raccontava di quella stagione, dei lavori che ci sono sempre da fare, del fatto che ogni anno tutto si ripete come prima. E che si sta così bene ad “annoiarsi in pace”.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Manifesto del fu-turismo
Noi crediamo che il silenzio, lo spazio spopolato, il piccolo villaggio, la valle remota, l’alpeggio abbandonato, l’osteria spartana, il bivacco in quota, la montagna nuda, l’ospizio agostiniano, la sobrietà montanara, siano la ricchezza delle Alpi di domani. Cose di ieri, anzi, cose di sempre, che sorgono all’orizzonte come il sole dell’avvenire.
Crediamo che là dove non c’è niente in verità ci sia tutto. Non sono tanti i luoghi dell’Alto Mondo ancora incontaminati e chi ce li ha, a volte, invece di vedere un tesoro, lamenta l’assenza di impianti, di strutture, di divertimenti, di disney – cabine, di brum brum slitte, di slot machine. Recentemente sulle mappe delle Alpi sono comparse delle aree, volute dalla Comunità Europea, denominate ZPS e SIC. Acronimi che stanno per Zone di Protezione Speciale e Siti di Interesse Comunitario. I montanari si dividono e non tutti vedono in esse delle opportunità, un marchio di qualità, un patrimonio dell’umanità da valorizzare, anche da “vendere” (in senso buono), comunicando che lassù, sui loro monti, ci sono specie animali tante come non se ne sono mai viste, e persino certe che, quando ci sono, indicano che la qualità dell’aria è migliore (“indicatori biologici” li chiamano, appunto).
Alcuni però lo sanno che l'economia dell'Alto Mondo oggi, insieme a quello su cui è ruotata per secoli la vita in montagna, insieme al formaggio e alla cura delle bestie, può aprirsi a un turismo diverso, non più di massa, non più di grandi messe, non più di rapina, non più di toccata e fuga, non più di case che si aprono e luci che si accendono come nei plastici dei presepi per chiudersi e spegnersi alla fine delle feste, ma di inedite comunità integrate di montanari e nuovi venuti, di pellegrini del terzo millennio che si muovono in punta di piedi ad ascoltare il silenzio e a fotografare l’immenso, a osservare e a imparare dalla natura, di scialpinisti che salgono in pelle di foca e scendono sibilando curve nella polvere, di arrampicatori che scalano a contatto con la roccia, di rifugi e bivacchi, di camminatori che sostano a tagliare il pane sul tavolo di pietra delle baite che resistono. Secondo quanto sostiene un originale studioso della montagna, il tedesco Werner Bätzing, è “nello sviluppo ponderato e nella valorizzazione di aree spopolate il futuro per le Alpi. In una possibile localizzazione di attività tipiche dell’era postindustriale, le Alpi possono trasformarsi non solo in una disordinata arena per il tempo libero, ma in un autentico spazio per vivere”.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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8 marzo, Wild Roses
La quinta puntata di Cose dell’Alto Mondo esce apposta l’8 marzo in polemica con la festa della donna e con una certa malintesa idea di parità. Fra le iniziative politiche più strambe degli ultimi anni vi è stata quella delle cosiddette “quote rosa”, la parità dei sessi imposta per legge. Parità numerica, si badi bene, mica culturale: in sostanza la legge ha imposto un equilibrio numerico fisso fra uomini e donne. Fossi stata donna mi sarei sentita come il panda del wwf. Ma come? Se ci hanno sempre detto che ci sono molte più donne che uomini e che le prime campano persino di più! E se poi ci fossero più donne meritevoli che si fa, ci si ferma al fifty fifty perché lo dice la legge? In Svezia l’hanno capito che la filosofia della parità quantitativa è stupida: così i consigli di amministrazione sono a maggioranza composti da donne, o meglio, dalle persone più in gamba che, per caso, senza imposizione di legge, sono donne.
Recentemente in Italia si è deciso che donne e uomini debbano andare in pensione alla stessa età. Ma le donne che partoriscono e che si sobbarcano lo svezzamento iniziale dei propri figli? Non sarebbe intelligente prevedere uno sconto proporzionato? Che so io, 2 anni per ogni figlio fino a un massimo di 6 anni. Se l’età pensionabile è a 65 anni e una donna ha avuto 2 figli, dovrebbe potere andare in pensione a 61 anni. Allora sì che si potrebbe parlare di parità. Insomma, la parità qualitativa è un’altra cosa rispetto alla filosofia delle “quote rosa”.
La verità è che le donne sono rose selvatiche, toste e coriacee, che hanno fatto e continuano a fare molto più di quanto non dica la storia ufficiale, quella che compare nei documenti, sempre stilati dagli uomini. E anche qui, ora, è un uomo che scrive. Con la sua parte femminile però, a cui dà molto ascolto. Il linguaggio delle donne, in passato, era quello orale, volàtile ma vivo. Eppure, non solo in presunte epoche e luoghi nei quali vigeva il matriarcato, ma sempre, hanno contribuito in maniera determinante a indirizzare le sorti della civiltà. Le donne del villaggio walser di Agaro, in alta Val d’Ossola fumavano la pipa, e non per scimmiottare una qualche forma di virilità come nei dettami di certo femminismo ideologico, ma semplicemente perché a loro piaceva. Un esempio di cui sono piene le terre alte dove, per smussare le spine delle rose, usava una deprecabile caccia alle streghe (le “strìe”, come le chiamano in molti dialetti alpini). Ma anche un’immagine simbolica che rivela una parità diversa da quella delle leggi (necessaria ma non sufficiente) e che si realizzava in una [continua] complicità e solidarietà fra donne attraverso la quale il mondo, anzi, la madre terra, ha potuto mantenere un saldo baricentro. Ben più di quanto non immaginiamo.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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L'età di un Angelo
Niente a che vedere con temi metafisici o con la possibile eternità di certe figure alate. In ogni caso il personaggio di questo racconto, assolutamente vero, sembra avere moltissimi anni. L'Angelo in questione vive a Monza e, nel tempo libero, si dedica all'alpinismo. Si sa: la gente che va in montagna, specie in alta quota, è strana. C’è una storia, fra le tante, che mi ha colpito recentemente. Me l’ha raccontata un’amica guida alpina.
A inizio estate riceve una telefonata da un commercialista di Milano: “Salve, vorrei andare al Pizzo Bianco e verrei con altri due amici”. Quel fine settimana si trovarono tutti e quattro, guida e clienti, e salirono al rifugio Zamboni Zappa, sopra Macugnaga. Dopo aver cenato, l’Angelo, uno degli amici del commercialista, andò a prendere lo zaino ed estrasse due bottiglie di buon rosso (una rara Bonarda ferma). “E’ il mio compleanno – disse versando il vino nei bicchieri - e si deve festeggiare!”. Brindarono, estesero il brindisi ai presenti, scambiarono un po’ di battute da rifugio che, è noto, spaziano dalle imprese di Bonatti all’avvenenza della rifugista (se ce n’è una), e andarono a dormire felici. L’indomani fecero la vetta e non mancarono di rimpinguare con un sorso di grappa i festeggiamenti per la cima senza dimenticare un ulteriore tardivo cin per l’anno in più dell’amico. Fin qui tutto normale. Se non che, un mese dopo, i tre si rifecero vivi chiedendo alla guida di accompagnarli alla Capanna Margherita (Punta Gnifetti) e alla Zumstein, sempre sul Rosa, stavolta da Alagna Valsesia. La sera cenarono al Rifugio Mantova, nella nuova sala ristorante, a 3300 metri. Quando arrivarono al dolce e l’Angelo andò a prendere due bottiglie di rosso spiegando che bisognava festeggiare il suo compleanno, la nostra guida non dubitò più che i tre fossero degli originaloni. “Ma quante volte lo festeggi il compleanno?”, chiese all’Angelo l’indomani al Colle del Lyss. “Eh dipende… quando il Marco se la sente!”.“Cosa significa quando il Marco se la sente – ribatté la guida -, cosa c’entra il Marco coi tuoi compleanni?”. “C’entra c’entra. E’ lui che fa lo sherpa delle bottiglie. Lui le trasporta nello zaino e questo costituisce il regalo. Se non se la sente, niente compleanno…”.
Insomma, se in certi mondi fantastici, nel “paese delle meraviglie”, si festeggiano i non-compleanni, nell’Alto mondo (e non sarà un caso), c’è chi li compie tre o quattro volte in pochi mesi. Tutti gli anni. Ce ne fu un altro di festeggiamento infatti, alla Weissmies, a fine estate.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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In quota
La poesia della montagna è rara, specie quella che fa della montagna non un semplice sfondo, una quinta di scena, ma un'esperienza. La storia della letteratura italiana, fin dalle origini, ci mostra un ampio catalogo di monti e colline dell'anima, allegorie utilizzate non per dire della salita e della vetta, ma altro: le fatiche e i pericoli sulla via che porta alla luce del bene. Dal Monte Purgatorio di Dante al Ventoux di Petrarca, dall'ermo colle di Leopardi al Dente del Gigante di Carducci, dalla Piccozza di Pascoli alle mistiche vette di Rebora, l'ascensione reale cede il passo all'ascesi, l'esperienza alla contemplazione. Furono i monti orfici (da "I canti orfici") di Dino Campana a fare il loro ingresso nella letteratura con concretezza di cosa viva, indissolubilmente intrecciati alla biografia dell'autore, tanto da rendere necessario percorrerli a piedi per comprendere a fondo l'opera (si legga, a questo proposito, "I monti orfici" di Giovanni Cenacchi). E oggi? Oggi sono pochi ad azzardare la via evocativa, apparentemente vaga, del verso in quota. Fra questi Paola Loreto, poetessa assidua frequentatrice (per motivi professionali) degli autori americani per i quali la parola poetica è inconcepibile se non ancorata all'esperienza, a una forma di autenticità conferita dal vissuto. Cose dell'Alto Mondo incontrate per via:
Se salgo
Mi aiuti a rarefarmi
a essere corpo e aria insieme
a innalzarmi coi piedi nella terra.
A non sentire il peso, l’affanno, il male.
A essere occhio, orecchio, epidermide
sollecitata, organo di gusto e voce.
Vuoto e pieno. Assente, ridente.
Materia di materia che non è materia
ma solo se stessa: offerta alla luce del sole
assenza di pensiero senso significato. [continua]
***
Lembo di lago
Vedi come incontra l’acqua la roccia,
che le si getta dentro, come se ci
fosse sempre stata. Come se fosse
sua, e lei viva. E non si chiede cosa
viene domani, se tira il vento e
increspa la superficie e sciaborda
scaglie a riva. O se tutto resterà
perfettamente fermo, liquido,
e il silenzio assoluto.
(le poesie fanno parte della raccolta "In Quota" di Paola Loreto, in uscita nei primi mesi del 2012 per i tipi di Interlinea).
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Fahreneit 451
Recentemente la TV ha riproposto il film più anti televisivo della storia: Fahrenheit 451 (temperatura a cui brucia la carta) di Truffaut. Tratto da un romanzo di Ray Bradbury, costituisce il nostro manifesto ideale. In sintesi la pellicola racconta di un'ipotetica società futura nella quale i libri vengono messi al bando perché suscitano emozioni, le quali sono potenzialmente eversive per l'ordine costituito. Qui i pompieri non spengono gli incendi ma li appiccano: devono bruciare i libri e arrestare chi li nasconde. Solo la televisione è ammessa, anzi incentivata.
Ai margini delle città è in atto una resistenza: quella degli uomini-libro che imparano i libri a memoria per salvarli dall’estinzione. I loro nomi di battaglia sono quelli dei libri che imparano. Montag, il protagonista, pian piano si innamora dei libri e di una "resistente", passando così da una brillante carriera da pompiere e da una moglie tutta psicofarmaci e televisione, alla foresta degli uomini-libro.
Ecco, nel contesto diversissimo e identico del nostro tempo, questa è anche la nostra (r)esistenza: si consuma ai margini delle città, rispondendo alla chiamata della natura, nei modi non necessariamente radicali e fallimentari del Supertramp di Into the wild (titolo di un bel libro di Jon Krakauer su cui è basato un film di Sean Penn), ma pur sempre come esigenza di un "passaggio al bosco", come scelta di stare ai margini della civiltà dei consumi adottando uno stile di vita sobrio, dove la lettura (silenziosa o corale) prende il posto del frastuono dei mass-media, dove l'andare in montagna costituisce, insieme, una dimensione sportiva e formativa, dove la piccola comunità in cui le persone hanno dei nomi è preferibile alla massa dei numeri anonimi. Questo e altro ancora suggerisce oggi Fahrenheit 451, così attuale, così inattuale...
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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Nell'ombra, lontano dalla cronaca
Ci sono esseri umani che vivono nell’ombra e, da lì, con il loro stesso esistere, fanno da baluardo alle brutture e al male. In alcuni casi non solo (r)esistono nelle pieghe nascoste fra le montagne diventandone spiriti benigni di protezione, ma irradiano luce, con l’esempio. Norma io non l’ho mai incontrata, ma la “sento” da lontano. So di lei da un’amica che le vuole bene. So che ha poco più di quarant’anni, che vive sola, di allevamento, di prodotti caseari, di latte e della carne delle bestie macellate quando è il momento.
Fa base a Bugliaga, comune di Trasquera, nell’ossolana Val Divedro, un piccolo borgo di case sulle balze boschive vicine al confine italo svizzero del Passo del Sempione, sopra al Lago Maggiore. Una volta ho fatto una corsa a perdifiato là, nell’imminenza di un temporale, e ho trovato i suoi attrezzi da lavoro fuori casa, un mastello con dell’acqua, oggetti di vita quotidiana, la porta semiaperta, la sua presenza evidente... ma non l’ho vista. Una persona, a dispetto del nome, fuori dalla norma, che non ha mai fatto nulla per farsi conoscere e nulla mai farà, tanto che queste parole quasi stonano: per chi vive protetto dall’ombra, le luci dei riflettori sono come la peste. E non è per farne leggenda che ne parliamo. Sarebbe come tradire lo spirito della persona e il senso di questo scritto.
Ne parliamo perché questi esempi, di cui sappiamo esserci altri rari casi in Val Camonica, in diverse valli dell’arco alpino e nel mondo - giacché l’ombra li nasconde - sono una prova: la prova che non esistono solo la manovra, le escort di stato, le intercettazioni telefoniche, le speculazioni finanziarie, ma anche la vita reale, il sacrificio, la capacità di vivere di poco e di immense gioie discrete. Persone che vivono così, discoste, in qualche modo ci incoraggiano ad andare avanti e più in alto. Non sappiamo di loro solo perché la bellezza non fa cronaca. Ma esiste.
Lorenzo Scandroglio (lorenzo.scandroglio@gmail.com)
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